PANCHATANTRA
Tantra III
Di Corvi e Gufi
Indice:
ELEFANTI E LEPRI
IL MEDIATORE SCALTRO
IL BRAMINO ED I TRUFFATORI
IL BRAMINO E IL COBRA
L’ANZIANO, LA SUA GIOVANE MOGLIE E IL LADRO
I DUE SERPENTI
IL MATRIMONIO DEL TOPO
GLI ESCREMENTI D’ORO
LE RANE CHE CAVALCARONO IL SERPENTE
DI CORVI E GUFI
Questa terza parte del Panchatantra, inizia con un verso:
Non fidarti nemmeno di un caro amico
Che in precedenza era tuo nemico.
Questa è la storia di come i corvi, bruciarono la dimora di un gruppo fiducioso di gufi.
Una volta, tanto tempo fa, tutti i corvi in una città chiamata Mahilaropya, avevano fatto di un enorme albero di banyano la loro casa. L’albero aveva centinaia di rami. Il loro re, conosciuto come Meghavarna, aveva fatto erigere robuste fortificazioni, al fine di garantire la sicurezza di tutti i corvi. Allo stesso modo, i gufi della città avevano fatto di una vicina grotta la loro colonia. Avevano anch’essi un re, chiamato Arimardana, che governava con l’aiuto di un esercito forte e astuto.
Il re gufo teneva d’occhio l’albero di banyano e, a causa di una vecchia inimicizia, uccideva ogni notte qualsiasi corvo che avvistava lontano dall’albero. Lentamente, il re gufo, aveva organizzato l’uccisione di tutti i corvi, trovati al di fuori dell’albero. Per tale motivo i saggi hanno sempre detto, che chi trascura la malattia o il nemico, perisce nelle loro mani.
Allarmato per la perdita dei suoi sudditi, Meghavarna riunì i suoi ministri e chiese loro di preparare un piano per la guerra contro i gufi. Illustrò sei strategie e chiese loro di indicare la migliore delle sei. Il primo ministro suggerì, come tattica, il compromesso, perché uno deve prima sopravvivere e raccogliere le forze e poi distruggere il nemico. Gli anziani hanno detto,
“Piegarsi al nemico quando è forte
Attaccarlo quando è vulnerabile.
Una guerra non paga se non porta
Potenza, o ricchezza o amicizia“.
Il secondo ministro escluse il compromesso e sottopose come formula l’inganno. Egli citò l’esempio di come, nel Mahabharata, Bhima, travestito da donna, aveva ucciso Kichaka. Citò anche gli anziani dicendo:
“Non accettare mai la pace con
Un nemico che non è giusto
Infatti, egli romperà la sua parola
E ti pugnalerà alla schiena“.
Il ministro argomentò davanti l’auditorio, sostenendo che è facile sconfiggere un nemico quando è un tiranno, un avaro, un fannullone, un bugiardo, un vigliacco e un pazzo. Parole di pace, faranno invece solo infiammare, un nemico accecato dalla rabbia.
Il terzo ministro disse: “O Signore, il nostro nemico non è solo forte, ma anche malvagio. Né il compromesso, né l’inganno avranno effetto con lui. L’esilio è la strada migliore. Dovremo attendere e colpire quando il nemico diventa debole”.
Né la pace né la spavalderia
Possono sottomettere un nemico forte
Dove questi due non funzionano
Il volo è la migliore alternativa“.
Il quarto ministro si oppose a tutte queste tattiche e suggerì, al re dei corvi, di rimanere nel suo fortino, mobilitare il sostegno dei suoi amici e poi attaccare il nemico. Citò i saggi che dicono,
“Un re che fugge è come
Un cobra senza zanne.
Un coccodrillo in acqua
Può trasportare un elefante“.
Pertanto, affermò il ministro: “Un alleato è ciò che il vento è al fuoco. Il re deve rimanere dov’è e raccogliere alleati per averne il supporto”.
Il quinto ministro propose una strategia simile a quella del quarto e disse: “Resta nella tua fortezza e cerca l’aiuto di un alleato più forte del nemico. Paga anche formare un asse di alleati meno forti”.
Dopo aver ascoltato tutti i ministri, Meghavarna si rivolse al più saggio e anziano tra i suoi consiglieri, Sthirajeevi, e gli chiese i suoi consigli. Il saggio disse a Meghavarna,
“Oh, re dei corvi, questo è il momento di usare la doppiezza per finire il nemico. In tal modo è possibile mantenere il trono”.
“Ma saggio signore, non abbiamo idea di dove vive Arimardana e quali sono le sue debolezze”.
“Non è una difficoltà. Inviate le vostre spie a raccogliere informazioni sugli personaggi chiave che consigliano il re dei gufi. Il passo successivo è quello di dividerli mettendoli uno contro l’altro”.
“Raccontami prima perché i corvi e i gufi non vanno d’accordo”, chiese Meghavarna.
Sthirajeevi rispose: “Questa è un’altra storia.
Tanto, tanto tempo fa, tutti gli uccelli della giungla – cigni, pappagalli, gru, usignoli, civette, pavoni, fagiani, piccioni, passeri, cornacchie e così via – si trovavano in assemblea, per esprimere la loro angoscia perché il loro re, Garuda, era diventato indifferente al loro benessere e non riusciva a salvarli dai bracconieri. Convinti che le persone senza un protettore, sono come passeggeri di una nave senza capitano, avevano deciso di eleggere un nuovo re. La scelta cadde su un gufo.
Come il gufo venne incoronato, un corvo volò in assemblea e chiese loro perché e che cosa stavano festeggiando. Quando gli uccelli gli esposero i dettagli, il corvo disse loro, “Il gufo è un uccello cattivo e brutto e non è saggio scegliere un capo quando Garuda è ancora vivo. Per schiacciare i nemici è sufficiente citare il nome di Garuda o il nome di chi è grande in una specifica materia. Fu così che le lepri riuscirono a vivere felici: pronunciando il nome della luna”.
Gli uccelli chiesero al corvo in visita: “Dicci, come accadde questo?”
“Ve lo dirò”, disse il corvo e cominciò a raccontare loro la storia delle lepri e degli elefanti.
ELEFANTI E LEPRI
C’era una volta un grande elefante, chiamato Chaturdanta, che regnava su un vasto tratto di foresta come re dei suoi sudditi. Essi non erano felici, perché per molti anni non c’erano state piogge e tutti i laghi, serbatoi, stagni e pozze d’acqua nella foresta, erano divenuti aridi. Un giorno i sudditi si recarono in delegazione dal re e lo supplicarono: “O re potente, non c’è acqua da bere nella foresta. Molti dei più giovani sono sull’orlo dell’estinzione. Ti preghiamo di cercare un lago pieno di acqua e di salvarci”.
Il re disse loro: “Io so di un lago nascosto, che è sempre pieno di acqua. Andiamo là e saremo salvi”.
Gli elefanti allora partirono per il lago nascosto e dopo avere arrancato attraverso la giungla, per cinque giorni e cinque notti, finalmente raggiunsero il grande lago. Essi si stabilirono su un appezzamento di terreno presso il lago e, ancora una volta, iniziarono le loro baldorie in acqua. Gli elefanti, quotidianamente marciavano lungo la loro strada verso il lago, ma nel far ciò, calpestavano centinaia di lepri che abitavano intorno al lago, uccidendone alcune e ferendone altre.
Un giorno, le lepri si riunirono in assemblea, per ideare un piano per salvarsi dalla minaccia degli elefanti. Una delle più anziane disse: “Questi elefanti verranno ogni giorno e ogni giorno semineranno il panico e la distruzione tra di noi. Dobbiamo trovare una soluzione a questo problema”.
Una delle più sagge tra loro, disse: “Il grande Manu ha detto che è meglio abbandonare una persona per salvare l’intera comunità, abbandonare la comunità per salvare il villaggio e ad abbandonare il villaggio per salvare il paese. Anche se il terreno è fertile, un re saggio dovrebbe abbandonarlo, se fosse nell’interesse dei suoi sudditi”.
Ma le altre lepri protestarono e dissero: “Come possiamo farlo? Abbiamo vissuto qui per più generazioni. Cerchiamo di trovare un’alternativa. Vediamo se siamo in grado di spaventare gli elefanti in qualche modo”.
Alcune di loro dissero: “Sappiamo di un trucco che funziona con gli elefanti. Tuttavia, abbiamo bisogno di una persona molto intelligente”.
Pressate a rivelare il piano, dissero: “Il nostro sovrano Vijayadatta vive sulla sfera lunare. Mandiamo un messaggero al re elefante. Il piano è quello di dire al re elefante, che la Luna non ama gli elefanti che visitano questo lago, perché stanno arrecando gravi danni a centinaia di lepri. La Luna ha dichiarato il divieto assoluto di accesso al lago, per gli elefanti”.
Alcune altre concordarono e dissero: “Sì, c’è una lepre il cui nome è Lambakarna. Essa è una esperta negoziatrice. Può portare a termine l’incarico con successo”.
Dopo molte discussioni, le lepri decisero di inviare Lambakarna dal re elefante.
Affrontando il re, Lambakarna disse: “O re, senza cuore, vivo nella sfera lunare. La Luna mi ha mandata a voi come ambasciatrice. Questo lago appartiene alla Luna. Essa ha proibito a tutti voi di abbeverarvi con l’acqua del lago. Quindi, tornate da dove siete venuti”.
“Ma dov’è il tuo Signore, la Luna?” chiese il re elefante.
Lambakarna rispose: “Egli viene molto spesso in questo lago. E’ venuto a consolare i sopravvissuti della vostra furia”.
“Allora, fatemelo vedere” il re elefante sfidò l’inviato.
“Vieni con me da solo, io te lo mostrerò”.
“Andiamo allora”, disse l’elefante.
Quella notte Lambakarna accompagnò il re elefante al lago e mostrandogli il riflesso della luna nel lago, disse:
“Eccolo qui, il nostro Re, la Luna. Si è perso nella meditazione. Muoviti con cautela e salutalo. In caso contrario, disturberai la sua meditazione e cadrà su di voi la sua ira”.
Prendendolo per la vera luna, il re elefante porse i suoi omaggi e se ne andò in silenzio. Le lepri tirarono un sospiro di sollievo e vissero felici e contente.
Il corvo, agli uccelli che erano riuniti per eleggere un capo, disse: “E’ per questo che è importante scegliere una persona saggia ed esperta come vostro capo. Se non lo fate, ascoltate questa storia, di come una lepre e una pernice, hanno rovinato se stesse perché hanno scelto un mediatore malvagio”.
“Molto interessante”, risposero gli uccelli e chiesero al corvo in visita di narrare loro la storia del mediatore.
Il corvo in visita inizia il racconto:
IL MEDIATORE SCALTRO
Un passero viveva nella cavità di un grande albero, sul quale avevo edificato il mio nido. Il suo nome era Kapinjala. Siamo diventati buoni amici e passavamo il nostro tempo a discutere sui personaggi della nostra letteratura e sulle cose insolite che abbiamo visto nei nostri viaggi. Un giorno, il mio amico ha lasciato l’albero, con gli altri passeri, in cerca di cibo e non è ritornato neanche dopo il tramonto. Ho cominciato a preoccuparmi. “Che cosa gli è successo? Forse qualche cacciatore lo ha catturato? Lui non abbandona mai la mia compagnia, neanche per un po’”.
I giorni passavano senza alcuna traccia del mio amico Kapinjala. Una bella mattina, una lepre di nome Sighragha, venne in silenzio e occupò il vuoto che ara stata la casa del mio amico. La cosa non mi preoccupò, perché non vi era alcuna notizia su Kapinjala e avevo perso ogni speranza di un suo ritorno. Ma un giorno, tornò sano come quando era partito, e scoprì che la lepre aveva preso il suo posto.
Kapinjala disse alla lepre, “O lepre, quello che hai fatto è improprio. Hai occupato il mio posto; lascialo immediatamente!”
Sighragha replicò dicendo: “Di cosa stai parlando? Questo posto è mio. Non hai sentito gli anziani affermare che nessuno ha diritti su un bene pubblico, un tempio, un laghetto e un albero? Chi gode della terra per più di dieci anni, la usucapisce, ossia ne diventa anche il proprietario. Ciò non necessita di prove o relativi documenti. Questo posto non è più tuo”.
Il passero gli rispose: “Oh, stai citando scritture legali! Andiamo da un esperto in diritto ed etica. Rispetteremo la sua decisione”.
La lepre accettò questa proposta ed entrambi si recarono alla ricerca di un esperto. Curioso di vedere cosa sarebbe successo, anche io li seguii. Nel frattempo, la notizia del loro litigio, aveva raggiunto un gatto malvagio e selvaggio. Conoscendo il percorso che la lepre e il passero avrebbero preso, il gatto approntò un campo lungo la strada. Egli stese un tappeto di erba a terra e si mise in una postura da meditazione. Di fronte al sole e alzando le mani in adorazione, il gatto iniziò a recitare le Scritture:
“Questo mondo non ha essenza. La vita sta passando. Tutte le relazioni tra amanti sono come un sogno. I vostri legami con la famiglia, sono illusori. Non c’è alternativa a seguire la strada giusta. I saggi hanno detto”.
“Questo misero corpo presto perirà
La ricchezza materiale non è permanente
La morte bussa alla tua porta
Libera te stesso dalle catene terrene
Colui che abbandona la strada giusta
È lo stesso che un morto vivente”.
“Vorrei concludere questo lungo discorso e dirvi in poche parole qual’è la strada giusta. Fare del bene agli altri è virtù. Tormentare gli altri è vizio. Questa è l’essenza della nostra filosofia. Io sono al servizio di Dio e ho rinunciato a tutti i desideri. Non voglio farvi del male. Dopo aver sentito il vostro racconto, io deciderò chi tra voi è il legittimo proprietario del posto nell’albero. Ma ora sono molto vecchio e non riesco a sentirvi bene. Quindi, vi prego di venire vicino a me per raccontare la vostra storia”.
Quando il povero e innocente passero, in compagnia della lepre, giunsero alla portata del gatto, lui si avventò su di loro, menando una zampata al passero e saltando alla gola della lepre, uccidendoli entrambi.
Il corvo in visita, disse poi agli uccelli, “Ecco perché io dico, che se ponete la vostra fede in questo gufo malvagio e cieco, incontrerete la stessa fine, come la lepre e il passero”. Gli uccelli allora si dispersero, decidendo di discutere di nuovo e attentamente sul problema, prima di eleggere il gufo come re.
Nel frattempo, il gufo era rimasto seduto nervosamente sul trono, in attesa dell’incoronazione.
Egli chiese alla moglie Krikalika, “Che cosa è tutto questo ritardo nell’incoronarmi?”
La moglie rispose: “Signore, è quel corvo che ha sabotato l’incoronazione. Tutti gli uccelli si sono dispersi. Solo quel corvo è rimasto qui. Vieni, andiamo. Ti porterò a casa”.
Furioso, il gufo gridò al corvo, “malvagio di un corvo, che male ti ho fatto? Hai rovinato l’incoronazione. Questa è una ragione sufficiente, perché da oggi ci sarà inimicizia tra gufi e corvi. Si possono guarire le ferite inferte al corpo, ma non al cuore”.
Sconsolato, il gufo andò a casa con la moglie.
Il corvo iniziò a riflettere, “Oh, che sciocchezza ho fatto? Inutilmente, mi sono creato dei nemici. Non avrei dovuto consigliare gli uccelli di non eleggere il gufo come re. Gli anziani hanno giustamente detto:
“Parole al momento sbagliato
Parole che alla fine arrecano dolore
Parole che fanno male agli altri
Sono sempre buone come il veleno“.
Rimpiangendo quello che aveva detto e fatto, anche il corvo in visita volò a casa. Questo è il modo in cui l’inimicizia, iniziò tra i gufi e i corvi.
Dopo aver ascoltato la storia, Meghavarna chiese a Sthirajeevi: “Che cosa dobbiamo fare in una situazione del genere?”
Sthirajeevi, il corvo saggio, gli disse: “Non vi è una strategia migliore di quella che avevo già esposto. Con il suo aiuto, andrò io stesso e conquisterò il re gufo. I saggi hanno detto, che gli uomini con grande buon senso e un po’ di astuzia, possono sottomettere nemici più forti, come gli imbroglioni che ingannarono il bramino credulone col suo agnello”.
Su richiesta di Meghavarna, Sthirajeevi iniziò a narrare la storia del bramino.
IL BRAMINO ED I TRUFFATORI
Mitra Sarma era un bramino che viveva in un piccolo villaggio. Egli aveva l’abitudine di rendere culto quotidianamente al Fuoco. Era il mese di Magha (febbraio), il cielo era pieno di nuvole e aveva già cominciato a piovere. A quel tempo, Sarma, era partito per un villaggio vicino, per cercare qualche persona agiata che gli donasse un agnello sacrificale. Nel villaggio trovò un ricco uomo perbene, cui fece la sua richiesta e questi gli offrì un agnello sano e ben nutrito, per il sacrificio agli Dei.
Portando l’agnello sulle spalle, il bramino iniziò il suo viaggio di ritorno. Tre truffatori, molto affamati ed emaciati, gli attraversarono la strada e vedendo l’agnello ben nutrito sulle spalle del bramino pensarono: “Ah, Dio ci ha mandato del buon cibo. Cerchiamo di ingannare il bramino separandoci e liberiamoci dalla fame e dal freddo”. Subito, si misero in azione.
Uno di loro, cambiatosi i vestiti e superando il bramino da un’altra strada, lo fermò e disse: “O, ma quanto sei sciocco? Un tale grande adoratore del Fuoco, perché stai portando questo cane sulle spalle? Questo ti coprirà di ridicolo. Non lo sai che è peccato toccare un cane, o un gallo, o un asino?”
Il Bramino perse la pazienza e disse: “Tu stupido ragazzo, sei cieco? Perché chiami cane un agnello?”
Il primo truffatore rispose, “Non essere arrabbiato, se pensi che non è un cane, vai pure avanti. Non ho obiezioni”.
Il bramino aveva percorso a malapena pochi metri di distanza, quando il secondo truffatore lo salutò e gli disse: “O, rispettabile signore, è altamente deplorevole che stiate portando un vitello morto sulle spalle, per quanto vi sia caro. L’uomo che tocca gli animali morti o uccelli, deve sottoporsi a riti di purificazione”.
Il bramino lo sfidò: “Sei proprio cieco! Questo è un agnello sacrificale vivo e tu dici che è un vitello morto!”
Il secondo imbroglione allora disse: “Va bene, signore. Vi prego di scusarmi. Sono un idiota ignorante. Fate come preferite, se va bene a voi …”.
Ora era la volta del terzo truffatore di attraversare il percorso del bramino.
Rivolgendosi al bramino egli disse: “Signore, è altamente sconveniente portare un asino sulle spalle. Questo non va fatto! Secondo quanto affermano gli anziani, chi tocca un asino, consapevolmente o meno, deve fare un bagno completamente vestito. Quindi, vi consiglio di lasciarlo, prima che qualcuno se ne accorga”.
Un po’ stanco, un po’ esasperato, il povero bramino, pensando veramente di stare portando un asino o altro, gettò l’agnello a terra e si affrettò verso casa.
Sthirajeevi, continuando la sua spiegazione, disse a Meghavarna:
“Non vi è quasi nessuna persona
Che non è fuorviato da
Il servilismo di un nuovo servitore o
Le dolci parole di un ospite o
Le lacrime finte di una donna scaltra “.
“Inoltre, ricordati di non litigare con gli uomini deboli quando sono uniti, perché non possono essere sconfitti. Osserva, per esempio, come un serpente mortale diventa preda di un esercito unito di formiche. È per questo che voglio dirti qualche parola di avvertimento. Seguile”.
“Faremo come comandi”, disse Meghavarna.
Sthirajeevi cominciò quindi a rivelare il suo piano: “A parte le quattro strategie che abbiamo state esposto, ve n’è una quinta. In presenza di tutti, maltrattami e puniscimi, trattandomi come amico del tuo nemico. Ciò convincerà le spie del nostro nemico, che non ti fidi più di me. Portate un po’ di sangue e spruzzatelo sul mio corpo. Poi andate in esilio verso le colline di Rishyamooka”.
“Io resterò qui pieno di lividi e quando arriva il nemico, cercherò di guadagnare la sua misericordia e la fiducia dando a voi la colpa. Potrete soggiornare sulle colline, finché scopro dove si trova la loro fortezza. Per avvisarvi quando tutti i gufi, durante il giorno, stanno dormendo, vi manderò un segnale. Allora potrai venire e con l’aiuto del tuo esercito, uccidere tutti i gufi. Questo progetto è il risultato di un complesso ragionamento. Non abbiamo alternative”.
Dopo avere avuto l’approvazione del piano da parte di Meghavarna, Sthirajeevi iniziò una finta lotta con il re dei corvi. I soldati del re e gli altri, scambiandolo per un vero e proprio duello, erano pronti ad uccidere Sthirajeevi, quando Meghavarna disse loro: “Non interferire. Andate via. Avrò io il piacere di punire questo perfido fellone”. Meghavarna, fece poi finta di attaccare Sthirajeevi con il becco e lo cosparse di sangue che aveva con sé. Infine partì con il suo seguito per le colline.
Krikalika, moglie del pretendente al trono, che stava spiando il campo dei corvi, portò queste notizie, dell’aggressione al ministro Sthirajeevi e della partenza del re dei corvi verso le colline, al gufo re Arimardana. Subito dopo il tramonto, il gufo re, accompagnato dai suoi ministri e sudditi, si propose di uccidere tutti i corvi. Raggiunsero l’albero, la casa dei corvi, e la circondarono.
Non trovandovi un singolo corvo e felice per questo motivo, Arimardana ordinò ai suoi soldati di cercare i corvi, in modo da poterli inseguire e ucciderli. Nel frattempo, Sthirajeevi, che aveva subito finte lesioni, cominciò debolmente a gemere per attirare l’attenzione dei gufi.
Quando i gufi lo videro e si precipitarono a ucciderlo, egli implorò, “Signori, il mio nome è Sthirajeevi e io sono il ministro di Meghavarna, il re dei corvi. Prima che voi mi uccidiate, ho qualcosa da trasmettere al vostro re”.
Arimardana, venuto subito a vedere il ministro, gli chiese il motivo della sua situazione. Sthirajeevi gli disse: “Il nostro re, voleva vendicare il massacro dei suoi sudditi, compiuto dai vostri soldati. Quando ho saputo, che era intenzionato ad ingaggiare una guerra contro di te, gli ho consigliato di non essere avventato e di non entrare in guerra con te. Gli ho chiesto di cercare la pace con voi. Il mio re, pensando che io fossi dalla tua parte, con grande rabbia mi ha inflitto queste ferite. Appena mi riprendo, vi mostrerò dove lui ei suoi uomini si nascondono. È possibile distruggerli”.
Il re dei gufi convocò una riunione dei suoi anziani e dei suoi cinque ministri, per consultarli. Chiese al suo primo ministro, Raktaksha, “Amico, il ministro del nostro nemico è in nostra custodia. Che cosa dobbiamo fare con lui?”
Il ministro rispose: “Cosa c’è da discutere? Uccidetelo immediatamente, senza esitazione. E’ sempre meglio distruggere il nemico, prima che acquisti forza. Una opportunità come questa, arriva una volta soltanto. Se la perdi ora, non si ripresenterà più. Non lasciatevi ingannare dalla manifestazione di affetto del ministro di Meghavarna. Perché una volta perso, l’amore non ritorna mai”.
Per essere più convincente, Raktaksha narrò al re di gufi, la storia di un cobra e di un bramino.
IL BRAMINO E IL COBRA
Haridatta era un bramino che viveva in un piccolo villaggio. Egli coltivava la terra, ma questa gli dava appena di che sopravvivere. Un giorno, incapace di sopportare il calore del sole estivo, si fermò all’ombra di un grande albero a riposare per un po’. Prima che potesse stendersi sull’erba, vide un enorme cobra ondeggiante, con il cappuccio aperto, in un vicino formicaio.
Egli pensò: “Questo cobra deve essere davvero la Dea di questa terra. Non l’ho mai adorato, è per questo che non sono in grado di ottenere qualcosa dalla terra. Da oggi, l’adorerò”.
Andò subito al suo villaggio e tornò con un bicchiere pieno di latte.
Lo versò in una ciotola e rivolto al formicaio disse: “O signore del paese, non sapevo che stavi vivendo in questo formicaio. È per questo che non ho mai pagato a voi il mio tributo. Chiedo scusa e per favore, vogliate accettare questa mia umile offerta”.
Poi, egli mise la ciotola di latte vicino al formicaio e si allontanò.
Il giorno dopo, quando il bramino arrivò nel suo terreno, prima che il sole fosse alto, vide una moneta d’oro nella ciotola che aveva lasciato presso il formicaio. Da allora in poi, all’alba di ogni giorno, egli giungeva da solo, raccoglieva la moneta, offriva il latte nella ciotola e andava via. Una mattina, dovendosi recare per lavoro in un altro paese, il bramino chiese a suo figlio di andare al formicaio per offrire il latte. Quando il figlio tornò il giorno dopo, trovò una moneta d’oro nella ciotola.
Dopo avere raccolto la moneta, pensò: “Questo formicaio deve essere pieno d’oro. Se uccido il cobra, posso raccogliere tutto l’oro in una volta, invece di venire qua ogni giorno”.
Fu così che afferrò un grosso bastone e calò un forte colpo sul cobra. Il cobra però, abilmente schivato il colpo, lo morse con le sue zanne velenose ed il figlio del bramino morì. Tornando al suo villaggio il giorno dopo, Haridatta sentì la storia della morte di suo figlio e subito si rese conto che l’avidità era dietro di essa.
Il bramino si recò al formicaio, il giorno dopo la cremazione di suo figlio e offrì il latte per il cobra. Senza uscire dal suo buco, il cobra disse a Haridatta:
“Sei venuto qui per l’oro, dimenticando che hai perso un figlio e che sei in lutto. Il motivo è l’avidità, pura avidità. Da oggi, non vi è alcun senso nella nostra relazione. Accecato dalla sua giovinezza, tuo figlio mi ha colpito e io l’ho respinto. Come posso dimenticare quel colpo? Come puoi subire il lutto per la morte di tuo figlio? Infine, io ti do questo diamante, non tornare più”.
Terminata la storia del bramino e del cobra, Raktaksha disse ad Arimardana, “La lezione è che l’amore, una volta tradito, non può essere recuperato. Se uccidete questo ministro, Sthirajeevi, non vi lascerete dietro dei problemi.
Dopo aver ascoltato Raktaksha pazientemente, il re dei gufi si rivolse al suo secondo ministro Kruraksha e gli chiese la sua opinione.
Il secondo ministro disse: “O mio Signore, io non sono d’accordo con il consiglio che ti ha dato Raktaksha. E’ molto scortese. Non dovremmo mai uccidere una persona in cerca di asilo. C’è una bella storia su come, sapendo che un cacciatore che aveva cercato rifugio, era in realtà venuto per ucciderla, una colomba si è offerta come cibo per il cacciatore”.
Su richiesta del re, che gli chiese di fargli conoscere quella storia, Kruraksha iniziò a raccontare.
Una volta, nel cuore di una foresta, viveva un cacciatore spietato che terrorizzava gli uccelli e gli animali. A causa della sua natura crudele non aveva amici o parenti. Gli anziani hanno detto:
“Non è saggio essere vicini a
Uomini che sono malvagi e crudeli.
Evitate tali persone efferate come
Si evitano i serpenti velenosi”.
Il cacciatore andava nel bosco ogni mattina, con un bastone e una rete. Un giorno, egli gettò la sua rete e vi intrappolò una femmina di colomba. Subito, nuvole spesse e nere si addensarono in cielo e cominciarono a piovere cani e gatti. Spaventato e tremante, il cacciatore cercò rifugio e lo trovò sotto un enorme albero banyano. La pioggia e il vento cessarono improvvisamente. Il cielo divenne chiaro e pieno di stelle brillanti. Il cacciatore disse ad alta voce, “Se c’è qualcuno sull’albero, sono a chiedergli riparo e cibo. Ho fame e potrei svenire da un momento all’altro. Vi prego di salvarmi”.
Nel frattempo, una colomba che aveva il suo nido su quello stesso albero, era preoccupata perché sua moglie, che era uscita ormai da molto tempo, non era ancora tornata. Egli pregò gli Dei, che la moglie non avesse subito alcun danno, in mezzo alla tormenta di vento e pioggia. Egli iniziò a ripetersi:
“Benedetto e felice è colui
Con una moglie premurosa e amorevole.
Una casa non è una casa senza moglie;
Una casa senza moglie è come una giungla”.
La moglie, intrappolata nella rete del cacciatore, udì le parole accorate del marito e, felice che suo marito l’amasse così tanto, pensò:
“Non la chiamare donna colei
Il cui marito è infelice;
Dove vivono mariti felici
Il paradiso fa piovere infinite benedizioni”.
Più tardi, rivolgendosi al marito, la colomba disse: “Ascoltami, mio caro. Anche a costo della tua vita, devi andare in soccorso di una persona in cerca di riparo. Questo cacciatore soffre di freddo e di fame e ha cercato riparo sotto il nostro albero. Tu lo devi servire con devozione. Non odiarlo perché ha intrappolato la tua amata moglie. In realtà, mi hanno legata le corde del destino. Abbandona ogni pensiero di vendetta e servi il cacciatore con cura”.
In conformità con il desiderio di sua moglie, la colomba, soffocato il dolore, disse al cacciatore:
“Signore, sei il benvenuto presso la nostra modesta dimora. Per favore, fatemi sapere come posso esservi utile. Comportatevi come se foste a casa vostra e non esitate a comandarmi”.
Il cacciatore disse alla colomba che soffriva per il freddo e necessitava di sollievo.
La colomba volò via, e tornò portando del fuoco, trovato da qualche parte, con esso accese alcuni rami secchi ed invitò il cacciatore a scaldarsi.
La colomba disse al cacciatore, “A causa delle mie azioni passate, io sono nato povero e sfortunato e non ho abbastanza per sfamare me stesso. Qual è il senso della vita di un padrone di casa se non può accogliere adeguatamente un ospite? E’ meglio che rinunci a questo mondo”.
Pensò allora che fosse meglio morire, che dire di no ad un ospite. Deciso ad immolarsi, la colomba disse al cacciatore di aspettare un po’ e che presto avrebbe avuto il cibo. Poi, dopo aver girato sul fuoco, la colomba vi si gettò dentro bruciando, a vantaggio del cacciatore.
Mosso da questo sacrificio, il cacciatore si disse: “Io sono responsabile di questa tragedia. Senza dubbio andrò all’inferno. Questa colomba è una grande anima, che mi ha mostrato la strada giusta. D’ora in avanti, abbandonerò tutti i bisogni e desideri e lentamente annienterò questo corpo. Niente, né il freddo, né il sole, né il vento, contano per me. Lo farò subito e vedrò la mia lenta fine”.
Dopo questi pensieri, il cacciatore gettò via la sua rete e il bastone, non prima però, di avere liberato la femmina di colomba dalla rete.
Essa si avvide allora, di come suo marito si fosse sacrificato nel fuoco, per fornire cibo al cacciatore. Pensando a come la vita, senza il suo amato sposo, sarebbe stata peggiore della morte, subito saltò anch’essa nello stesso fuoco che stava consumando i poveri resti dell’amato consorte.
Dopo la sua morte, salì in cielo dove trovò il marito che indossava le insegne regali.
Vedendola, egli disse:
“O mia cara, hai compiuto un gesto di grande amore, a gettarti come me nel fuoco. Le spose come te, vivono felicemente con i loro mariti per 35 milioni di anni”.
Fu così che la coppia di colombi visse felice e contenta per lungo tempo. Il cacciatore, come si era ripromesso, evitando i piaceri del mondo, andò in un bosco per realizzare Dio. Come le penitenze lo ebbero purificato di tutti i desideri, il cacciatore rimase bruciato in un incendio boschivo e ottenne il nirvana.
Dopo che Kruraksha concluse il racconto della storia del cacciatore, Arimardana chiese ad un terzo ministro, Deeptaksha, i suoi consigli su come comportarsi con Sthirajeevi.
Il ministro disse al re: “Mio signore, Sthirajeevi non merita di essere ucciso. Ci sarà utile nel rivelare i segreti del nemico. C’è questa storia di come anche un ladro potrebbe aiutare un uomo anziano”.
Alla richiesta del re, Deeptaksha iniziò a raccontare la storia dell’anziano, della sua giovane moglie e del ladro.
L’ANZIANO, LA SUA GIOVANE MOGLIE E IL LADRO
C’era una volta un anziano mercante vedovo, che viveva in una città del sud. Anche se anziano, non aveva rinunciato al suo desiderio di un’altra moglie. Pertanto, diede molti soldi ad un povero mercante e sposò la sua giovane figlia. Essa non amava il suo vecchio marito. Un giorno, quando il marito e la moglie stavano dormendo sugli opposti lati del letto, un ladro entrò nella loro casa. Sconvolto dalla vista del ladro, la moglie abbracciò il marito per la paura.
Il marito era tanto entusiasta e sorpreso dell’abbraccio, che si mise a pensare al motivo che l’aveva fatta comportare così. Cercò in ogni angolo della casa e finalmente trovò il ladro in agguato in un angolo. Poi si rese conto che sua moglie lo aveva abbracciato, perché il ladro l’aveva spaventata. Il marito disse al ladro: “Mio caro ragazzo, grazie a te oggi ho avuto la fortuna di essere abbracciato da mia moglie. Porta via quello che vuoi”.
Il ladro rispose: “Mio caro signore, non trovo nulla in casa tua che posso portarmi via. Però tornerò presto a vedere se c’è qualcosa da prendere. Oppure, mi potresti chiamare ogni volta che hai bisogno di un abbraccio da tua moglie”.
“Per questo”, disse Deeptaksha, “quando anche un ladro può fare qualcosa di buono per qualcuno, perché non questo Sthirajeevi che ha chiesto asilo? Egli ci darà informazioni utili sui punti deboli del nemico. Pertanto, a mio avviso, egli non dovrebbe essere ucciso”.
Poi, Arimardana, si rivolse a un altro ministro, Vakranasa, e gli chiese: “Dimmi che cosa dobbiamo fare con questo corvo?” Vakranasa gli rispose che “la vita del rifugiato dovrebbe essere risparmiata, perché ci può portare beneficio che due rivali combattano tra di loro, come il litigio tra il ladro e il mostro che aveva salvato la vita di un bramino e dei suoi due vitelli”.
“Come è successo?” Chiese il re gufo.
Vakranasa gli narrò la seguente storia.
Drona era un povero bramino che viveva in una piccola città. Era così povero che non aveva mai indossato vestiti buoni, o utilizzati cosmetici, o indugiato nel il lusso di mangiare un paan (foglie di betel). Aveva i capelli arruffati, la barba non rasata e le unghie lunghe. Lui era estremamente debole ed emaciato perché non aveva riparo dal freddo, dal sole, dal vento o dalla pioggia. Un giorno, avendone pietà, un ricco signore gli donò due vitelli.
Con tutta la cura e l’amore, iniziò a nutrirli bene con olio di burro ed erba. I vitelli crebbero, fino a diventare due animali pregiati e sani.
Su di loro mise gli occhi un ladro, che, in un modo o nell’altro, aveva deciso che li avrebbe rubati. Mentre si aggirava intorno alla casa del bramino, egli vide sulla strada una figura impressionante, con grandi denti molto lunghi e affilati come zanne, un naso arcuato e occhi rosso sangue. Aveva un corpo magro, con le vene varicose ed i suoi capelli e la barba sembravano due torce.
Anche se aveva paura, il ladro gli chiese: “Chi sei, o Signore?”
“Sono Satyavachana, un mostro. Chi sei tu, piuttosto”.
“Io sono un ladro. Il mio nome è Kroorakarma. Ho intenzione di rubare i vitelli del Bramino”.
Il mostro ebbe fiducia nelle parole del ladro e gli disse che consumava un solo pasto al giorno, la sera e che per cena avrebbe ucciso il bramino.
Entrambi andarono a casa di Drona, il bramino, quella notte stessa e aspettarono che si recasse a dormire. Quando furono sicuri che il povero bramino stesse dormendo, il mostro si mosse per ucciderlo. Il ladro lo trattenne dicendo che era inopportuno uccidere il bramino prima che lui avesse portato via i due vitelli.
Il mostro rispose: “Se i vitelli resistendo fanno rumore e disturbano il sonno del bramino, tutto il nostro sforzo sarà vano”.
Il ladro obiettò: “Supponiamo che ci sia qualche ostacolo nel vostro tentativo di ucciderlo, non potrei prendere i vitelli. Pertanto, attendete finché non ho finito prima il mio lavoro”.
Il ladro e il mostro continuarono a litigare su chi avrebbe dovuto essere il primo a finire il proprio lavoro.
Il bramino, a causa della confusione che stavano facendo, si svegliò e chiese loro chi fossero e che cosa stesse succedendo.
Il ladro gli rispose: “Questo mostro ti vuole uccidere”.
Il mostro negò e disse: “O bramino, questo ladro vuole rubare i tuoi vitelli”.
Il bramino invocò la propria divinità ed attraverso la potenza della preghiera costrinse il mostro a fuggire. Egli afferrò poi un bastone e fece fuggire il ladro.
“Per questo”, concluse Vakranasa, “Avevo detto che se due rivali litigano tra di loro, saremo noi i beneficiari”. Allora, il re chiese al suo quarto ministro, Prakarakarna per avere anche il suo parere.
Il ministro rispose: “Mio signore, penso che dovremmo risparmiare la vita del corvo. E’ possibile che egli cooperi e ciò sarà un guadagno per noi. Dove non c’è cooperazione, la gente perisce come i due serpenti”.
Il re disse: “In tal caso, sentiamo questa storia.”
I DUE SERPENTI
C’era una volta c’era un re chiamato Devasakti. Egli aveva un figlio che era molto debole e che, di giorno in giorno, diventava sempre più debole. Dopo molti consulti, si scoprì che aveva un serpente nello stomaco. Esperti, medici e chirurghi, cercarono di riportarlo in salute, ma senza successo. Sconsolato, una notte il giovane abbandonò il suo palazzo e si rifugiò in un tempio solitario e fatiscente, in un’altra città governata da un monarca chiamato Bali. Ogni giorno, il ragazzo andava a chiedere l’elemosina e ritornava al tempio per la notte.
Il re Bali aveva due figlie non più giovani. Seguendo una tradizione, le due figlie si alzavano ogni alba e toccavano i piedi del padre in segno di reverenza.
Un giorno, dopo aver reso omaggio al re, una delle sue figlie disse: “Vittoria al re. Siamo felici in ogni caso”.
La seconda figlia aggiunse: “O re, raccogliete i frutti delle vostre azioni”.
Il re, molto arrabbiato per le parole della seconda figlia, chiamò i suoi ministri e disse loro: “Portate via questa donna sboccata e datela in sposa a uno sconosciuto. Lasciatele raccogliere le conseguenze delle sue azioni”.
In conformità con gli ordini del re, i ministri la portarono via e la diedero in sposa, senza pompa o cerimonie, al figlio di Devasakti che viveva nel vecchio tempio. La figlia del re, considerando il giovane sconosciuto come un dono di Dio, dopo averlo persuaso, partì con lui per un altro paese.
La principessa e il figlio di Devasakti, raggiunsero una città dove si accamparono nei pressi di un lago. Dopo aver chiesto al marito di prendersi cura del campo, essa si recò in città con le sue ancelle, ad acquistare prodotti per le necessità quotidiane, come riso, sale, olio, burro e verdure. Dopo la spesa, tornò al lago dove vide uno spettacolo sorprendente.
Il principe dormiva, con la testa appoggiata su un formicaio. Il serpente nel suo stomaco era uscito a respirare aria fresca. Intanto, un altro serpente era emerso dal formicaio per lo stesso motivo. Entrambi si fissarono a vicenda.
Quello del formicaio disse: “Tu malvagia creatura, perché tormenti un così bel principe?”
L’altro serpente replicò: “Perché stai inquinando le due urne d’oro che si trovano nel tuo buco?”
Così, mentre si azzuffavano, rivelarono i segreti l’uno dell’altro.
Il serpente nel formicaio disse all’altro serpente, “Non essere arrogante. Chi non conosce il segreto della tua morte? Se il principe beve una zuppa a base di farina e latte con la senape, morirai non celebrato”.
“Ah, è così? Allora anche tu puoi morire se qualcuno versa dell’olio o acqua caldi nel tuo formicaio. Non essere troppo orgoglioso”, rispose stizzito il serpente nel ventre del principe.
La principessa, che aveva sentito tutto quello che si erano detti i due serpenti, versò olio caldo nel formicaio e prese le due urne d’oro; poi diede l’intruglio con la senape al marito e uccise il serpente dentro il suo stomaco.
Sia il figlio che la nuora di Divyasakti, tornati nel suo regno, vissero per sempre felici e contenti.
Dopo aver ascoltato questa storia, il re gufo Arimardana, accettò questo consiglio secondo il quale la vita di Sthirajeevi doveva essere risparmiata.
Raktaksha, il primo ministro, era triste e disse agli altri ministri: “Avete ingannato il re dando consigli sbagliati; egli ha aperto la strada alla sua distruzione. I saggi hanno detto, che dove gli uomini malvagi sono onorati e i saggi sono insultati, ci sarà la paura, la fame e la morte”.
Ignorando l’avviso di Raktaksha, gli uomini del re si apprestarono a portare Sthirajeevi alla loro fortezza.
Lungo la strada, Sthirajeevi disse: ” Mio Signore, nella mia condizione, non posso essere di alcun aiuto per voi. Perché mi portate inutilmente alla fortezza? Mi desidero saltare nel fuoco e perire. Permettetemi di farlo”.
Sentendo suoi pensieri interiori, Raktaksha gli chiese perché avrebbe voluto finire nel fuoco.
Sthirajeevi rispose, “E’ a causa vostra che ho incontrato questo destino nelle mani di Meghavarna”.
Raktaksha disse: “Tu sei un imbroglione, bravo a girare parole. Siete davvero nati come corvi e anche se nasci come gufo nella tua prossima vita, avrai ancora ugualmente la natura di un corvo. Hai mai sentito la storia del topo che, in un’altra vita, nonostante fosse nata col corpo di una ragazza, ha scelto di sposarsi, non un essere umano, ma un altro topo?”
I ministri e gli altri uomini del re, pressarono Raktaksha affinché narrasse loro questa storia.
C’era un eremo appartenente al saggio Salankayana. Egli una mattina si recò al fiume Gange per fare il bagno. Mentre stava recitando strofe in lode del Sole, vide un nibbio che portava un topo tra gli artigli. Subito, il saggio scagliò una pietra verso l’uccello rapace. Colpito dalla pietra, il rapace lasciò la sua preda e il topo, in un attimo, corse dal saggio chiedendogli protezione.
Il nibbio, rivolgendosi a Salankayana, disse: “O saggio, mi hai colpito con una pietra, ciò non è corretto. Non hai timore di Dio? Restituiscimi il topo o andrai all’inferno”.
Il saggio disse: “Tu miserabile uccello, il mio compito è quello di salvare le creazioni di Dio, punire i malvagi, di rispettare il bene, per onorare il maestro e adorare gli Dei. Perché predichi tutte quelle regole di condotta, irrilevanti per me?”
Il nibbio si apprestò ad impartire al saggio, una grande lezione circa il giusto sentiero.
“Tu non hai idea di che cosa è bene e cosa è male. Dio ha creato tutti noi e, al momento della creazione, ha prescritto anche quello che dovrebbe essere il nostro cibo. Dio ha indicato topi, altri roditori e insetti come cibo per noi. Perché mi incolpi per la ricerca di ciò che Dio ha inteso per me? Non c’è nulla di sbagliato per chiunque nel mangiare il cibo assegnato a lui. Il pericolo, arriva quando uno mangia quello che non è cibo per lui. Ciò che è la carne per qualcuno, è veleno per qualcun altro”.
“Non è appropriato per i saggi essere violenti. Non si presume che notino ciò che sta accadendo intorno a loro. Essi sono distaccati da questo mondo. Nulla di ciò che accade nel mondo materiale dovrebbe interessarli. Essi non devono discriminare tra vizio e virtù. Sono al di sopra di tutto. Ma col tuo atto, oggi hai perso tutti i guadagni della tua penitenza. Impara da quel racconto su come tre fratelli ottennero quello stato di distacco”.
Salankayana chiese al nibbio di narrarglielo.
Il nibbio gli raccontò la storia che segue.
IL MATRIMONIO DEL TOPO
C’erano una volta tre saggi, nonché fratelli, che avevano scelto un argine del fiume come luogo per le loro penitenze. I loro nomi erano Ekata, Dwita e Trita. I vestiti, che lavavano tutti i giorni, li asciugavano al cielo, senza una corda da bucato, per timore che cadessero e si sporcassero. Un giorno, mentre i saggi asciugavano i loro abiti, passò un nibbio che stava portando una rana femmina – come me che racconto portavo un topo femmina -.
Ekata lo vide e gridò al nibbio, “Lascia, lascia”.
In un attimo i suoi vestiti caddero e finirono a terra.
Quando Dwita vide questo, gridò al nibbio, “Non lasciare, non lasciare” e ben presto anche i suoi vestiti precipitarono giù.
Quando Trita, vide che i vestiti dei suo fratelli maggiori cadevano, pensò che sarebbe stato meglio non dire nulla e rimase in silenzio. Questo è il motivo per cui è meglio non prestare attenzione a quanto avviene attorno e concentrarsi su di sé.
Il saggio Salankayana rispose: “O sciocco nibbio, la tua storia è accaduta nell’Era della Verità, quando anche se si parlava con un malvagio si diventava peccatori. I vestiti sono caduti perché i primi due saggi si erano rivolti al malvagio rapace. Ora stiamo vivendo nell’Età di Kali, un’epoca in cui tutti sono nati peccatori. In questa era, solo chi commette un peccato diventa peccatore e non quelli che parlano ai peccatori. Ora, non sprecare oltre il mio tempo. Dissipo o affronto la mia maledizione “.
Il nibbio volò via deluso.
Il topo femmina allora pregò Salankayana, “O saggio, vi prego, dammi un riparo nel vostro eremo. In caso contrario, ci sarà qualche uccello malvagio che mi ucciderà. Passerò il resto della mia vita con gli avanzi che sceglierai di condividere con me”.
La preghiera del topo commosse il saggio. Però, pensando che se l’avesse preso in casa sua, la gente avrebbe riso di lui, trasformò il topo in una graziosa fanciulla e la portò a casa.
“Che cosa hai portato?” Chiese la moglie del saggio. “Da dove viene fuori questa ragazza?”
“Lei è una femmina di topo. Aveva bisogno di protezione dagli uccelli malvagi. Per questo l’ho trasformato in una ragazza e portata a casa. Occorrerà che tu dedichi tutte le cure a lei. Più avanti, farò di lei nuovamente un topo”, disse il saggio.
“Per favore non farlo”, supplicò la moglie: “Tu le hai salvato la vita, e quindi sei diventato suo padre. Io non ho un figlio. Dal momento che tu sei suo padre, lei diventa mia figlia”. Il saggio accettò la sua richiesta.
La ragazza, crescendo, divenne una bellissima donna e divenne una possibile sposa. Salankayana disse a sua moglie: “La ragazza è diventata maggiorenne. Non è giusto per lei rimanere in casa nostra. I sapienti hanno detto,
“Colui che tiene una possibile sposa nella sua casa perde un posto in paradiso. Così stabiliscono gli antenati.
“Va bene, cercale un ragazzo “, acconsentì la moglie.
Salankayana immediatamente convocò il Sole e gli disse: “Questa è mia figlia. Se lei è disposta a diventare vostra moglie, preparatevi a sposarla”.
Mostrò poi il Sole a sua figlia e le chiese se voleva sposarlo. Ella rispose che il sole era troppo caldo e lei avrebbe preferito qualcun altro. Il saggio allora convocò il Dio delle Nubi, il Dio del Vento e il Dio di Monti. La ragazza respinse ognuno di loro per un motivo o per l’altro.
Allora il Dio dei Monti disse al saggio, “il candidato più adatto per la vostra figlia è un topo. Egli è più potente di me”.
Il saggio allora la ritrasformò in un topo e la diede in sposa al re dei topi.
“Ecco perché,” riprese Raktaksha, “voglio che tu sappia che un corvo è un corvo e non può diventare un gufo”.
Eppure, ignorando gli avvertimenti di Raktaksha, gli uomini del re portarono Sthirajeevi alla loro fortezza, senza sapere che stavano portando la rovina su se stessi e sul re. Lungo la strada verso la sua destinazione Sthirajeevi pensava: “Solo questo gufo (Raktaksha) ha consigliato al re di uccidermi. Di tutti gli uomini del re solo lui sa governare. Se avessero ascoltato la sua parola e mi avessero ucciso, il re sarebbe sfuggito al disastro”.
Quando la processione che scortava Sthirajeevi arrivò all’ingresso della fortezza, re Arimardana ordinò ai suoi uomini di ospitarlo in un luogo confortevole di sua scelta. Ma Sthirajeevi aveva altre idee. Se avesse dovuto pianificare un piano per uccidere il re, non sarebbe stato possibile dall’interno della fortezza, perché lui ed i suoi movimenti sarebbero stati costantemente sotto sorveglianza. Avrebbe subito messo in allerta i suoi ospiti. Quindi, pensò, era meglio rimanere al di fuori della fortezza.
Così, disse al re: “Mio signore, io sono grato per la vostra generosità. Ma io sono un politico e appartengo al campo nemico. Anche se sono tuo devoto e fedele servitore. Non mi si addice vivere all’interno del palazzo. Starò all’ingresso del forte e ogni giorno santificherò il mio corpo con la polvere dei tuoi piedi”.
Il re dei gufi, accettata la sua richiesta, gli permise di sistemarsi dove voleva. I sudditi del re si presero molta cura dei suoi bisogni e molto presto Sthirajeevi divenne forte come un lottatore. Vedendo la nuova personalità di Sthirajeevi, Raktaksha disse al re e agli altri ministri, “io considero tutti voi molto imprudenti. Non avete sentito i sapienti, ripetere spesso le parole dell’uccello Sindhuka? Egli era solito dire: – Io per primo sono uno sciocco. Poi il cacciatore e poi il re e quindi i suoi ministri”.
“Come è successo?” chiesero i ministri e Raktaksha cominciò a raccontare loro la storia di Sindhuka.
GLI ESCREMENTI D’ORO
C’era una volta un uccello, chiamato Sindhuka, che viveva sulle pendici di una montagna. I suoi escrementi si trasformare in oro, non appena toccavano il suolo. Un giorno, un cacciatore in cerca di prede, giunse presso l’albero e vide gli escrementi di Sindhuka toccare il suolo e trasformarsi in oro.
Il cacciatore, stupito, pensò: “Sono stato a caccia uccelli e piccoli animali da quando ero un ragazzo. Ora ho 80 anni di età. Non ho mai visto nella mia vita questa specie di miracolo”.
Egli decise di catturare in qualche modo l’uccello e predispose una trappola con un cappio. Inconsapevole del pericolo, egli era rimasto sul suo ramo e cantava allegramente. Ben presto, il cappio si strinse e così cacciatore catturò l’uccello e lo spinse in una gabbia.
Il cacciatore lo portò a casa e considerò il da farsi, “Se il re viene a sapere di questa meraviglia, egli certamente me lo toglierà. Invece, andrò io stesso da lui a presentargli questa unicità”.
Il giorno seguente il cacciatore portò l’uccello al re e mostrandoglielo con grande riverenza. Il re era molto felice e ordinò ai suoi uomini di tenere l’uccello in custodia e di nutrirlo con il miglior cibo. Il suo ministro era però riluttante ad accettare l’uccello.
Egli disse: “O Rajah, non vi è alcun motivo di fidarsi della parola di questo cacciatore e accettare l’uccello. Qualcuno ha mai visto un uccello espellere oro? Pertanto, chiedo di rilasciare l’uccello in libertà”.
Il re ordinò che l’uccello fosse immediatamente liberato. Non appena la porta della gabbia fu aperta, l’uccello volò via e appollaiatosi su una porta vicina defecò. Gli escrementi si trasformarono subito in oro. In quel momento, Sindhuka recitò quella frase sugli sciocchi:
“In primo luogo, sono stato uno sciocco io. Poi il cacciatore e poi il re ed i suoi ministri”.
Raktaksha continuò, “Ecco perché ti dico che siamo tutti sciocchi a risparmiare la vita di questo ministro dei corvi, Sthirajeevi”. Nonostante gli insistenti avvertimenti di Raktaksha, i gufi continuarono ad occuparsi di Sthirajeevi con grande devozione. Il ministro dei corvi divenne sempre più forte e potente. Rinunciando a tutte le speranze di far cambiare opinione al suo re ed ai ministri, Raktaksha chiamati i suoi più stretti collaboratori, disse loro:
“Amici, il nostro re ed i suoi fedeli sono al di là di ogni ripensamento. Abbiamo dato tutti i consigli che un ministro doveva dare. Possiamo ora lasciare questo luogo pericoloso e piantare le nostre tende altrove. Gli anziani hanno detto: – Prospera chi anticipa il pericolo e gli sfugge. Colui che non distrugge se stesso-. Ho vissuto in questa giungla per così tanto tempo e sono diventato vecchio. Eppure, in tutta la mia vita non ho mai sentito una grotta che parla come un essere umano”.
“Che cosa? Una grotta che parla come un essere umano! Sorprendente. Non ne abbiamo mai sentito parlare. T preghiamo di dirci tutto su di essa”, gli chiesero i suoi seguaci.
Raktaksha allora raccontò loro la storia che segue.
Nel profondo della foresta pluviale viveva un leone di nome Kharanakara. Un giorno, era molto affamato e aveva iniziato a cercare una preda in ogni angolo della foresta. Non c’era nessun animale, grande o piccolo, per quanto poteva vedere. Mentre stava vagando in cerca di cibo, trovò una grande caverna e pensò: “Qui ci deve essere la tana di un qualche animale. Se è così, certamente in serata dovrà tornare in questa grotta. Io mi ci nasconderò, e quando la mia preda torna, gli balzo addosso e otterrò un buon pasto”.
Come il sole cominciò a tramontare, Dadhiputcha, uno sciacallo, giunse alla grotta, che era la sua dimora e vide le orme del leone dirigersi verso l’interno di essa. Non vi era, invece, nessuna traccia di impronte che dimostrassero che il leone se ne fosse andato via. Spaventato, lo sciacallo voleva assicurarsi che fosse un leone o qualche altro grosso animale, che si trovava nella grotta. Ma come fare a saperlo? Lo colpì una brillante idea.
Lo sciacallo andò vicino alla grotta e cominciò a gridare, “Ciao grotta, sono io, il tuo amico”. Non ci fu risposta dalla grotta. Non sapeva che cosa fare. Provò di nuovo e gridò: “Ciao grotta, non ti ricordi le disposizioni che abbiamo preso? Devo gridare quando arrivo da te e tu mi chiedi di entrare; senza il tuo segnale verde io non entro nella grotta. Dal momento che rimani in silenzio, io vado in qualche altra grotta”.
Il leone, sentito lo sciacallo parlare, pensò: “Ah, sembra che ci sia un accordo tra la grotta e questo animale. Lasciamo che cada nella mia trappola. Io gli rispondo con un benvenuto e lui entrerà felice e tranquillo”.
Il leone allora ruggì, “Ciao sciacallo, entra. Sei il benvenuto”.
Lo sciacallo, capendo immediatamente che dentro la grotta c’era un leone, in tutta fretta lasciò quel luogo, ricordando le parole del saggio: “Sopravvive chi anticipa un pericolo e agisce per evitarlo. Chi lo fa non riceve cordoglio”.
Raktaksha disse, “Così, è come dobbiamo anticipare il pericolo ed agire. Andiamo via adesso, prima che sia troppo tardi”.
Ascoltando questo consiglio, i suoi seguaci e altri, lo seguirono in un posto molto lontano.
Vedendo che il principale ostacolo sulla sua strada era scomparso e che i fedeli al re che erano rimasti erano tutti sciocchi, Sthirajeevi iniziò a raccogliere ramoscelli con il pretesto di costruire un nido. Egli li accumulò all’ingresso della grotta in cui il re e gli altri gufi vivevano. Quando la pila fu abbastanza grande, attese l’alba, quando i gufi sarebbero diventati ciechi. Poi volò via da Meghavarna e gli disse di raggiungere il campo nemico prima che potesse giungere loro notizia del suo piano; disse anche che il re e gli altri corvi, dovevano accompagnarlo portando ciascuno un pezzo di legno ardente.
Fu così che Meghavarna ed i suoi sudditi seguirono Sthirajeevi, ciascuno con un tizzone ardente nel becco. Quando raggiunsero l’ingresso della grotta, che era stato bloccato dalla catasta di ramoscelli, costruita da Sthirajeevi, gettarono su di questa le braci.
La pila di legna cominciò subito a bruciare ferocemente, uccidendo tutti i gufi intrappolati all’interno.
Quando Megahvarna ei suoi uomini tornarono al loro regno, il re chiese a Sthirajeevi di raccontargli come aveva organizzato il piano per distruggere il nemico.
Sthirajeevi rispose: “Non è stato un lavoro facile vivere nel campo nemico. Per fortuna, tranne Raktaksha, ognuno dei ministri di Arimardana era uno sciocco. Eppure era come camminare sul filo di una spada. Ma se si vuole raggiungere il proprio obiettivo, occorre sopportare tutti gli inconvenienti e disagi, come il serpente che trasportò le rane sul dorso”.
LE RANE CHE CAVALCARONO IL SERPENTE
Un serpente nero di nome Mandavishya, viveva in un bosco sulle colline di Varuna. Stava diventando vecchio ed era preoccupato non riuscire più a catturare le rane e che ciò lo avrebbe reso ulteriormente debole; egli sentiva quindi la sua fine vicina. Con un piano in testa, si recò presso un lago e si adagiò sulla riva, come se avesse perso ogni interesse per le cose del mondo.
Una rana che abitava nel lago, uscì e gli chiese:
“Nonno, perché non sei a caccia di cibo, come hai sempre fatto in passato?”
Il serpente disse: “Ascolta, figlio mio, io sono molto sfortunato. Come potrei avere alcun desiderio di cibo? Ieri sera, mentre facevo il mio solito giro in cerca di cibo, ho avvistato una rana. Quando ho cercato di arrivare a lei, è saltata in mezzo a un gruppo di bramini recitando i Veda. Non riuscivo a rintracciarla. Ad un certo punto ho visto qualcosa di simile a una rana tra i bramini e le sono subito balzato sopra mordendola. Si è rivelato essere il pollice di un giovane bramino. Il ragazzo è morto immediatamente.
Quando il padre ha scoperto che avevo ucciso suo figlio, mi ha maledetto,-malvagio serpente, tu hai ucciso mio figlio innocente. Da ora in poi dovrai servire da veicolo per tutte le rane. La tua vita sarà alla loro mercé-. “Ho deciso di scontare la mia condanna. È per questo che sono qui “, concluse il serpente.
La rana corse nel lago e raccontò a tutti del serpente e della sua offerta di servire come veicolo. Felici della prospettiva, tutte le rane si riunirono per essere ricevute dal loro re Jalapada, al quale esposero la situazione del serpente. “Che notizia meravigliosa”, pensò il re e uscì in corteo dal lago, seguito dai suoi ministri e sudditi. Il re fu il primo a salire sulla schiena del serpente, seguito dai suoi ministri. In ordine di anzianità e importanza, i sudditi del re salirono anch’essi sul dorso del serpente. Quelle rane sfortunate che non poterono trovare spazio sul veicolo, seguirono il serpente in processione. Per intrattenerle, Mandavishya mostrò diverse prodezze che sapeva fare.
Eccitato dall’esperienza di cavalcare un serpente mortale, Jalapada, il re delle rane, pensò che quell’esperienza non aveva eguali. Nessuna cavalcata, né su un elefante o un cavallo o un carro o un palanchino, poteva esserle paragonata.
Il secondo giorno, Mandavishya rallentò il ritmo del suo movimento. Notando il cambio di passo, Jalapada chiese il serpente perché non si muoveva a passo svelto, come era suo solito. Il serpente rispose al re delle rane, che quel giorno non aveva mangiato e di essere troppo debole per trasportare così tanto carico.
Jalapada, impietosito dal serpente, propose, “Puoi avere le rane più giovani per cibo”.
Entusiasta per questa offerta, il serpente rispose: “O re delle rane, la mia situazione è dovuta alla maledizione che mi ha lanciato il bramino. La tua magnanima concessione oggi mi ha liberato dalla maledizione. Sono veramente felice”.
Fu così che il serpente cominciò a mangiare un paio di rane ogni giorno e presto divenne forte e sano. Era anche preoccupato che, se continuava a mangiare le rane a quella velocità, non ne sarebbero rimaste per il futuro.
Nel frattempo, un grosso cobra incrociò il loro cammino e, nel vedere il serpente che trasportava le rane, ne rimase meravigliato e gli chiese, “Questo è molto singolare, sebbene innaturale. Come mai sei diventato un veicolo per le rane, che sono il nostro cibo naturale?”
“E’ una lunga storia, che assomiglia a quella del bramino che fingeva di essere diventato cieco, dopo aver mangiato il buon cibo cucinato dalla moglie “, gli rispose Mandavishya.
Il cobra chiese al serpente di raccontargli quella storia.
C’era una volta, un bramino di nome Yagnadatta viveva in una città. Aveva una moglie che non era degna di fiducia. Essa aveva un amante al quale, segretamente, inviava ogni giorno il cibo delizioso che cucinava. Un giorno, il marito scoprì quello che stava facendo e le chiese:
“Mia cara, prepari ogni giorno qualche piatto speciale o altro e lo porti fuori di casa. Dimmi, qual’è la verità?”
Con grande presenza di spirito, rispose a Yagnadatta, “In questi giorni sto digiunando e porto quel cibo perché sia offerto alla Dea”. Per fugare i sospetti, raccolse del cibo, disse a suo marito che era in partenza per il tempio, e uscì di casa. Il marito cominciò a seguirla di nascosto e quando lei andava alla cisterna per fare il bagno, si recava al tempio della Dea e si nascondeva dietro l’altare.
Un giorno, dopo aver fatto il bagno nella vasca, la moglie del bramino giunse al tempio e cominciò a pregare la Dea, “O madre, dimmi, come posso rendere mio marito cieco?”
Il bramino, nascosto dietro l’idolo, modificando la sua voce, disse: “O grande devota, alimenta il tuo marito ogni giorno con la dolcezza e del cibo delizioso. Molto presto diventerà cieco”.
Da quel momento in poi, la moglie iniziò a cibare il marito con prelibatezze e ben presto, il bramino si lamentò con la moglie che non era in grado di vedere chiaramente. La moglie pensò che la Dea aveva finalmente esaudito il suo desiderio.
Incoraggiato dalla cecità del bramino, l’amante della moglie iniziò a farle visita senza alcun timore. Un giorno, Yagnadatta vide lui e sua moglie insieme. L’amante lo ignorò pensando che il bramino fosse cieco. Yagnadatta allora picchiò l’amante così forte che questi morì e punì severamente la moglie infedele.
“Ecco perché,” disse Mandavishya al cobra, “Sto facendo finta di essere gentile con le rane”. Jalapada, il re delle rane sentì questa conversazione e chiese a Mandavishya se quello che aveva sentito era vero. Il serpente, resosi subito conto del suo errore, gli rispose che era tutto uno scherzo. Il re delle rane, stupidamente credette alle parole del serpente il quale, piano piano, si mangiò tutte le rane.
Sthirajeevi spiegò a Meghavarna che ha seguito la tattica di Mandavishya, inducendo in errore i suoi nemici. Soddisfatto, il re dei corvi disse: “Quello che hai detto è corretto. I grandi uomini non rinunciano a ciò che hanno iniziato, anche a fronte di ostacoli. I vigliacchi, paurosi di fallire, non si avventurano del tutto. Ci sono alcuni che iniziano un’attività e l’abbandonano quando sorge un problema. Ma le persone coraggiose che non si arrendono, qualunque sia il pericolo che devono affrontare”.
“Tu, Sthirajeevi, hai schiacciato i nemici e portato sicurezza nel mio regno. I sapienti hanno detto:
“E ‘pericoloso lasciare
Un incendio non estinto
Un debito non reso
Un nemico non vinto e
Una malattia non curata”.
Sthirajeevi rispose: “Mio signore, la virtù appartiene a colui che è caritatevole, colto, coraggioso e amichevole. La virtù porta ricchezza. La ricchezza porta il potere. E’ un re con queste qualità che può governare ed espandere il suo regno. Ho fatto il mio dovere. Ho bisogno di riposo. Ma umilmente vorrei offrire una parola di consiglio. Tutto questo potere non dovrebbe dare alla testa. Seguite la via del dovere e governerete i vostri sudditi per un centinaio di anni. Che Dio vi benedica”.
Così termina la terza strategia che Vishnu Sarma elargì ai suoi alunni reali.